domenica 23 novembre 2008

Premetto che non sono individualista.

Il mio primo ragionamento da blogger parte proprio dalla nostra definizione, a cui mi permetto di contribuire proponendone una translitterazione in chiave empirica.

Federico con il suo rigore accademico ha spiegato il senso della banana. Della forma del blog, intendo. Mi sono documentata, ed effettivamente è una teoria economico-demografica piuttosto interessante quella della banana blu industriale, una linea gotica che ci unisce da Milano ad Exeter e che in sostanza riflette la nostra propensione alla mobilità, all’irrequietezza, all’emigrazione. Ma che essendo un prodotto interpretativo della divisione postbellica dell’Europa, non prende in considerazione il nuovo paradisiaco approdo degli Ulissi italiani: la Germania dell’est, Berlino.

Sam invece, il romantico disadattato nelle lande d’oltremanica, ha trovato la giusta alternativa all’attributo del colore blu, risparmiandoci l’abbinamento un po’ scontato ai colori dell’Europa e invece attingendo alla tradizione anglosassone che notoriamente associa questo colore alla malinconia e alla nostalgia di tempi, luoghi, atmosfere lontani, leitmotiv di ogni emigrato degno di questo nome.

Mi permetto di completare la trilogia della definizione di noi stessi, ricordando che requisito statuario del blog era l’ironia, la critica caricaturale del nostro paese, il taglio analitico ma leggero, la voglia di prendersi poco sul serio, una modesta satira preventiva de noantri.

Ripartiamo dalla definizione di noi stessi allora, ed ecco la translitterazione:

La Banana blu/Gli emigrati tristi?

La Repubblica ha lanciato nei giorni scorsi un’interessante iniziativa, uno spazio virtuale che invitava ricercatori italiani a spiegare le ragioni che li hanno spinti a lasciare l’Italia (spingitori di emigrati!). La somma concettuale di più di duemila testimonianze è un omogeneo incontro fra la delusione verso il paese che non ha saputo valorizzare i talenti dei suoi giovani ma anche l’irrefrenabile nostalgia dell’Italia, la voglia di tornare, di mettere a disposizione del proprio paese le “competenze acquisite”. Quasi tutti rivendicano il giusto diritto di poter scegliere dove vivere e lavorare vedendosi riconosciuti meriti e sacrifici. O semplicemente, evocano l’impellenza esistenziale di tornare alle vecchie abitudini, ai vecchi amici di sempre, alle strade e alle montagne da calpestare a occhi chiusi, o mangiarsi la mozzarella di bufala fresca di giornata. Ma a conti fatti prevale la rassicurante normalità di guadagni proporzionati e riconoscimenti professionali perché la miopia del nostro sistema paese, come sappiamo bene, li costringe a rimandare il rientro ad un ipotetico domani.

Leggendo incuriosita alcune testimonianze, riflettevo sulla rabbia e la delusione di questi testimoni di una situazione drammaticamente tangibile, l’esilio coatto, come negli anni cinquanta quando l’Italia si divideva fra chi godeva dei frutti del boom economico e chi era effettivamente costretto ad emigrare, valigia di cartone in mano e famiglia al seguito. E’ vero che lo sviluppo storico è un ciclico alternarsi di stagioni, ma siamo tornati davvero agli anni 50?noi tutti, amici del blog, siamo emigrati? Una testimonianza in particolare mi ha colpito per la sua superficiale conformità ad una pratica comune: il lamento dell’italiano all’estero. Una ricercatrice scrive dall’estero: “premetto che io amo il mio paese, ma non ci tornerò più perché..”. Mi infastidisce l’interlocutore che nello sviluppo di un ragionamento si sente in dovere di premettere una posizione; o non ha la forza argomentativa per sostenerla (“Premetto che non sono razzista” vi dice niente?), o ripropone una formula dialettica che ha sentito distrattamente una volta e che ripete perché fa effetto. Entrambe le ipotesi mi urtano.

E da questo fastidio, da questa inondazione di negatività, seppur fondata, lucida, condivisa, da queste ridondanti conferme di pessimismo e incertezza, ho reagito. E ho cominciato a pensare agli italiani all’estero, ma non più come ai martiri di una politica assenteista e volgare.

La malinconia di cui parla Sam mi ricorda l’atteggiamento che riconosco in tanti volti di italiani all’estero, incontrati nelle strade, nelle facoltà, nei bar fumosi, negli uffici. Non è forse l’alimento preferito per giustificare la perenne insoddisfazione , pretesto di ogni emigrante italiano per massimizzare le straordinarietà delle proprie origini culturali a detrimento delle condizioni ambientali, alimentari, umane, sociali dove si trova a vivere? Ma poi diciamocelo, anche la retorica romantica del marinaio lontano ha perso ogni fascino.

Avete conosciuto anche voi italiani all’estero che sembrano un agglomerato disordinato di buoni sentimenti, scienza gastronomica infusa, meteoropatia, simpatia-portami-via. Sempre insoddisfatti della loro città adottiva, propongono a chiunque gli capiti a tiro un fardello di paragoni il cui peso specifico ineluttabilmente pende verso la patria abbandonata controvoglia.

L’invito spontaneo “allora tornatene a casa tua” non è una soluzione appropriata. La vera rivoluzione è un’altra: immaginare per un attimo che non esiste alcuna predestinazione nelle nostre anagrafi, essere nati in un paese non implica necessariamente l’adesione culturale, identitaria, linguistica a quella comunità di persone. Lo zoon politikon è tale perché inserito in una società, qualsiasi essa sia. E poi, visto che l’italiano nasce viaggiatore, non sarebbe straordinariamente più affascinante fingersi il Marco Polo di Calvino che racconta in una lingua straniera le città fantastiche che ha visitato e in cui da straniero ha imparato più che da Venezia? Non sarebbe bello immaginare di reinventarsi ogni giorno? Attingere affamati da ogni esperienza come da una immensa tavola apparecchiata, e plasmare la propria identità individuale con sfumature eterogenee piuttosto che proclamarsi orgogliosamente fruitore di un patrimonio comunitario ereditato più per nascita e non per scelta?Non necessariamente il trionfo dell’individualismo, ma almeno l’emancipazione dalla schiavitù del conformità etnica, linguistica, alimentare. Non è stato vibrante arrivare in una città e sapersi adattare, assimilare tradizioni e linguaggi, diventare parte di una comunità, per poi abbandonarla per un’altra destinazione, in un moto perpetuo? Come Nanni Moretti che decide di dedicarsi solo a quello che gli piace veramente perché il centimetro della vita scorre (http://it.youtube.com/watch?v=Xv034QrvkXs), io ho deciso di vivere dove sono felice, col naso all’insù perché qui le strade mi parlano in lingue che ancora non conoscono.

Perché quei duemila ricercatori non si arrendono, depongono le armi della guerra con l’Italia e provano a scoprirsi davvero cosmopoliti? La sfida dell’identità europea, in fondo, non dovrebbe partire anche da qui?

In realtà la riflessione sui cervelli in fuga apre interrogativi più ampi: la politica della ricerca, la piaga dei raccomandati, la depressione economica di certe aree del sud, il radicamento di sistemi parastatali e paralegali di gestione del territorio, il principio stesso di nazionalismo e di jus soli, la scolarizzazione mancata, la teledipendenza, il nostro governo. La banana blu.

8 commenti:

alfredo ha detto...

Azzurro, comunque, é il colore mentale (ricordate Trieste citta azzura centro della Mittleuropa, Joyce di visita chez Svevo col più famoso dei due a farsi spiegare la psicanalisi dall'italo-asburgico? se proprio vogliamo parlarne, faceva l'irlandese, a me basta una confessione...)
in ogni caso non credo che il problema sia l'emigrazione - anzi, the whole point é più che altro usare la distanza dall'italia per analizzarla con più armi comparative.
Poi la melancolia non mi pare nostalgia della patria, quanto continua tensione al superamento.
Però un angolo emigrazione ci sta più che bene

Anonimo ha detto...

Andatevene tutti dall'Italia, lasciateci ricostruire in pace. Silvio

SamDos ha detto...

Bene. Non e' sicuramente il modo migliore per essere costruttivi ma va comunque accettato.
Vorrei pero' poter capire il perche' delle tue parole...chi sono esattamente quei tuti che se deovrebbero andare?
partiamo da qui e poi cerchiamo di parlarne.

grazie

samDos

thomas ha detto...

Rallegrati dossi, vuol dire che il nostro blog è ormai così popolare da attrarre l’odio dei berlusconiani :-)

Anonimo ha detto...

ma no, esageravo. pero' st'aria contrita, grigia...l'italia non ha bisogno di questo, o no? se e' la stessa solfa veltroniana, sicuramente no!

Federico ha detto...

Stavo cercando nel post qualche traccia di quell'aria contrita e grigia di cui parli.

Anzi, mi pare proprio che il post tenda proprio nella direzione opposta, che oltretutto condivido pienamente: persone altamente qualificate come i 'cervelli migranti' sanno benissimo che i confini nazionali sono troppo stretti per gli orizzonti della conoscenza, degli affari pubblici e privati contemporanei. Un lavoro di un certo livello - che è quello che si cerca - non solo presuppone, ma decisamente DEVE presuppore una mobilità internazionale, alla quale l'individuo ambizioso si deve - volente o nolente - adattare.

Ci sia tuttavia permesso di essere umani. Possiamo considerare la FINITEZZA tanto delle capacità umane di comprensione del mondo quanto di quelle di stabilire contatti identitari con le realtà che viviamo? Per me sì. Da questa necessaria 'finitezza' può nascere il disagio (in forma melancolica, per i più sensibili), lo spaesamento, la voglia di casa e di immediatezza. E' naturale che sia così, immigrato con scatola di cartone o con valigia Samsonite che si tratti. Perché sottovalutare una delle caratteristiche indisputabilmente migliori del nostro Paese, finché sopravvive: la qualità della vita?

Forse Claudia - su questo aspetto - è stata un po' cinica, probabilmente partendo dalla sua adattabilità personale, di quella di tanti di noi. Il nostro Anonimo invece mi pare piuttosto rigido nell'immediata associazione "riflessione - veltronismo - sfascismo": l'Italia ricostruita sul fare senza mai pensare né provare emozioni non è semplicemente ITALIANA. Rischia di essere un vestito di tre taglie più largo per noi, Paese di natura ristretta.

alfredo ha detto...

Non so precisamente cosa tu intenda per qualita' della vita - se parli di clima, cibo, natura ed arte, siamo d'accordo; tutto cio' pero' e' il frutto del passato se non addirittura di "madre natura". l'italia per me e' un enigma.

Che gli orizzonti della conoscenza non coincidano con i confini di una nazione e' sacrosanto.

una cosa vorrei chiarire: non c'e' nessun grigio in tutto cio'. al contrario si cerca di fare della distanza un'arma. punto. l'unica cosa grigia (e non nel senso di cerebrale, ma di stagnosa) e' la difficolta' della societa' italiana ad aprirsi al rinnovamento, a deporre gli abiti sfatti. questo puzza di muffa, non il nostro tentativo di mettere in luce il perche' di tale immobilismo.
Dal mio punto di vista, scrivere per questo blog e' gia' un modo - un work in progress, e' ovvio - di contribuire al cambiamento. col pensiero, prima; poi si vedra'.

clodcop ha detto...

qualità della vita, eccoci al punto!
ilsole24ore pubblica ogni anno la classifica delle città con la qualità di vita più alta, basata su criteri rigorosi: costo della vita, densità di popolazione, servizi pubblici, aree verdi, spazi culturali, etc. io (e alfredo) abbiamo vissuto per un anno nella città capolista qualche anno fa: clima padano (umido freddo e nebbioso d'inverno, torrido e afoso d'estate), aree verdi sì, ma paludose, cibo buono ma costoso, studenti tanti ma rinchiusi nelle loro case, autobus fino alle otto di sera. però c'era un grande outlet alle porte della città! o ilsole ha preso una cantonata o forse confondiamo la qualità della vità con qualcos'altro. o forse gli outlet stanno guadagnando posti come parametri di valutazione.
Esperimento: date una sintesi di qualità della vita in tre parole, e pensiamoci su.